giovedì 19 novembre 2009

mente materia e qualità

oggi ho finito di leggere un libro molto bello che si chiama "lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta".
quando ho finito di leggerlo ho un po' pianto.
questo libro me l'ha consigliato molto tempo fa martiros, ma non l'ho mai letto, semplicemente per fargli un dispetto.
ho pianto perchè questo libro parla, oltre che della follia di Fedro (che altri non è che il protagonista del viaggio e l'autore stesso), di un lungo viaggio in moto di un padre con il figlio.
potrei fermarmi qui.

mi sento come se qualcuno mi avesse schiaffeggiato le tempie. non so,sarà che mi faccio commuovere e coinvolgere da tutto in questo periodo, però quasi tutti i temi affrontati in questo libro sono argomenti che da un po' di tempo anche io ho dovuto mettere in discussione.
per esempio, la follia. il disadattamento, la scissione, la percezione distorta o tremendamente lucida della realtà. io credo di essere pazza. sì lo credo. credo che lo sia mio papà. credo che lo sia diventata mia mamma e soprattutto credo che siano tutti pazzi quelli che mi stanno attorno.
ci ho messo più o meno un anno a rendermi conto della mia follia. quando mi sono resa conto che avrebbe inevitabilmente fatto parte di me per sempre, mi sono commossa e mi sono vista da fuori quasi con tenerezza. ero quasi contenta.
ora come ora la follia che più mi preoccupa è quella di mia madre, che è sopraggiunta. dico questo perchè bene o male con la pazzia di mio padre ci abbiamo sempre convissuto.
ora mia mamma forse è matta, non lo sappiamo ancora. non parla, ha problemi di memoria e vuole fare cose che non sempre hanno senso. per esempio domenica ha voluto prendere due bustine di tè e se le è messe nella tasca della giacca a vento prima di tornare in ospedale. mah.
mi fa male pensare che forse dovrò convivere per sempre con la follia di mia madre. è sempre stata l'unico punto fermo della mia vita. so che è una considerazione banale, ma quando si giunge al punto di considerare sè stessi e tutte le persone che ci circodano dei pazzi, almeno l'idea di poter contare su un paio di persone quasi sane di mente, tra cui la mamma, è un' ancora di salvezza.
ora non ho più neppure quella certezza.
ho paura, e scioccamente il mio timore più grande è ora quello di diventare mamma senza la mia mamma. non è un progetto imminente, ma credo che prima o poi succederà, e quando non saprò a chi chiedere come fare a far star zitto un poppante che strilla avrò paura. sì, avrò paura di commettere una pazzia, perchè sono pazza e lo sarò per sempre.
questo libro poi, ovviamente, parla della motocicletta e del viaggio in moto. parla di un viaggio in moto tra un papà e un figlio.
anche io ho fatto un viaggio in moto con mio papà, quando avevo 13 anni. credo sia più o meno l'età del figlio del protagonista, non è specificato nel testo oppure non me lo ricordo.
siamo andati a salisburgo, che si diceva fosse la seconda patria della laverda e credevamo che gli abitanti di salisburgo (salisburghesi?) ci avrebbero riservato un trattamento specialissimo. e invece niente. durante questo viaggio ci hanno accompagnato i miei zii, che sono stati indubbiamente un elemento di disturbo. più o meno come lo sono i sutherland nel libro.
andare via in moto assieme è sempre stata l'unica attività che ci facesse interagire in maniera serena. ed io ho anche sempre saputo perchè: in moto non si parla.
la richiesta di un giro in moto e l'accettazione o meno da parte di mio papà è sempre stata la cartina di tornasole del nostro rapporto: se mi avesse risposto di sì, voleva dire che in quel periodo si andava d'accordo e lo si sarebbe andato ancora per un bel po', perchè i viaggi in moto sono sempre stati terapeutici per entrambi, come individui e come parenti. se mi rispondeva di no, poteva essere per tre motivi:

a)era davvero molto stanco
b)la moto non funzionava
c)era incazzato con me

l'opzione c ovviamente mi mandava in bestia, ma questo è niente. la mia collera raggiungeva livelli inenarrabili in una sola circostanza: mio papà andava in giro in moto senza di me. ecco, questa era una punizione per qualcosa che avevo fatto. ma non si trattava di una punizione per una stronzata tipo tornare a casa tardi. no, era qualcosa di più profondo, qualcosa che lo feriva nell'anima ma di cui non poteva parlare, per quieto vivere (che poi quieto vivere...), per convenzione, per non so che cazzo di motivo. questo succedeva per esempio quando avevo il moroso. succedeva spesso. non succedeva spesso che avessi il moroso, ma succedeva sovente quando ce l'ho avuto per più o meno due anni.
adesso invece succede perchè non abito più a casa, perchè ho fatto dei lavori che non gli sono piaciuti e perchè sono in ritardo con gli studi. il fatto è che lo fa in maniera subdola!
per esempio, quando lavoravo in struttura avevo i turni e non riuscivo a tornare a casa tutti i fine settimana. quando però tornavo sabato e domenica molto spesso non uscivo la sera, apposta per stare con i miei. ci tengo a sottolineare questo fatto per rendere ben chiara la mia intenzione di tornare dall'altro lato del po proprio per stare con i miei. bene, è successo parecchie volte che io mi svegliassi la domenica mattina e sentissi il borbottare della laverda che tornava da un giro. il rombo della moto di mio papà si sente fin da quando è in centro al paese. con la testa sul cuscino pensavo "no, ancora no, non può averlo fatto di nuovo". allora tendevo l'orecchio, sentivo la catena del cortile dietro al palazzo dove vivo cadere per terra, e poi sentivo gli ultimi 20, 25 "toh toh toh toh" tipici del motore tricilindrico, prima che mio papà la spegnesse,non in garage,ovviamente,ma sotto la mia finestra, cosicchè sarebbe stata la prima cosa che avrei visto quando avessi aperto la finestra.
durante il pranzo si scatenava il dramma, ma il più delle volte potevo contare sull'appoggio sia di mia mamma che di mio fratello. non ha mai dichiarato il motivo del perchè mi riservasse quegli sfregi, si limitava a giustificarsi con risposte vaghe del tipo "ma sono obbligato a portarti via sempre?" oppure "basta, non è più il caso" o anche "è che adesso ho paura". stronzate.
una volta mio papà la voleva vendere a un tipo assurdo di forlì che colleziona laverda. è un tipo fuori di testa che abbiamo spesso incontrato ai motoraduni.
il giorno prima che il tipo venisse a prendersela ha dovuto chiamarlo per disdire la vendita. avevo smesso di mangiare e piangevo a dirotto da un giorno intero.
poi una volta ho dovuto scrivere a motosprint per convincerlo a portarmi via con lui ogni tanto. siccome ho ricevuto centinaia di mail di personaggi che si proponevano come morosi per portarmi via con loro, mio papà ha fatto il duro per un po' ma poi ha ceduto
non so se si sia tenuto quella copia come ricordo.
ora mio papà non la usa più tanto. dice che è diventata pesante (sarà ingrassata) e che fa fatica a portarla.
poi adesso figuriamoci, è in lutto, e proprio oggi che l'ha voluta usare per andare a venezia ha trovato lo sciopero dei metalmeccanici sul ponte della libertà e l'ha dovuta spingere per tutto il ponte perchè non lo lasciavano passare.

nell'ultima parte del libro, padre e figlio protagonisti hanno l'ennesimo diverbio per un motivo che non esiste apparentemente.
quando finalmente i due si chiariscono una volta per tutte e sembra essere tornata la calma, si rimettono in viaggio, senza casco perchè fa molto caldo. il ragazzino si sente sicuro di sè e si alza in piedi sui pedalini, così riesce a vedere oltre le spalle di suo papà. fino a quel punto, lui non aveva visto niente altro che la schiena di suo padre che guidava, limitandosi a lanciare qualche sguardo ogni tanto, a destra e a sinistra e manifestando sempre poco entusiasmo per le cose che lui gli indicava di guardare.
poi il ragazzino inizia a pretendere di vedere oltre, di vedere di più,e di questo se ne rende conto anche suo papà.
ecco, questa è una cosa che rimpiango di non aver fatto mai. quando siamo andati a salisburgo forse ero troppo piccola per farlo, ma forse no. non ho mai avuto il coraggio di alzarmi in piedi di vedere le cose dalla prospettiva del pilota. ho sempre preferito stare chiusa dentro al casco a pensare, a guardare il riflesso del mio naso sulla visiera e al limite, guardare a destra e a sinistra.
non credo sia troppo tardi per farlo, anche se in moto con mio papà non ci vado da un bel po', ma ho capito che devo farlo e lo sto facendo.
ecco,forse è per quello che mio papà non mi porta più via con lui.


poi, un altro dei tanti argomenti trattati nel libro, è quello della chiesa della ragione. ossia, l'università.
adesso è tardi e devo andare a leggere la postfazione del libro che non ho ancora letto, però ci tenevo a dire che la concezione di università mia e di fedro (l'alter ego impazzito del protagonista) è praticamente indentica. e questo brano è una delle dimostrazioni di ciò:

la chiesa della ragione, come tutte le istituzioni del sistema, non è basata sulla forza del singolo quanto sulla sua debolezza. solo agli incapaci si può insegnare bene. gli altri sono sempre una minaccia. ma per fedro la qualità la si vede meglio sulle montagne, là oltre il limite dei boschi, e non qui, dove le finestre sporche e gli oceani di parole la offuscano. si rende conto che qui questo non verrà mai accettato: per capirlo bisogna essere liberi dall'autorità, e questa è un'istituzione autoritaria. per le pecore la qualità è quello che dice il pastore, e se una notte col vento che infuria, ne lasci una oltre il limite dei boschi lei si spaventerà a morte e belerà e belerà finchè non arriverà il pastore, o il lupo.
alla lezione successiva fedro tenta per l'ultima volta di comportarsi bene, ma il direttore non ne vuol sapere. fedro gli chiede di spiegargli un particolare, dicendo che non è riuscito a capirlo, non è vero, ma fedro pensa che un po' di deferenza non guasta.
la risposta è: "forse lei è stanco"", detta col tono più mordace possibile - ma non morde. il direttore sta semplicemente condannano in fedro ciò che più teme in se stesso. la lezione prosegue e fedro guarda fuori dalla finestra; gli dispiace per questo vecchio pastore e per le pecore e i cani del suo corso, e gli dispiace per se stesso: non sarà mai uno di loro. quando suona la campanella esce per l'ultima volta.



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martedì 10 novembre 2009

Quella sera scrisse la lezione sulla Chiesa della Ragione, che a differenza dei suoi soliti appunti sbrigativi era molto lunga e sviluppata con grande cura.
Citava, per cominciare, l'articolo di un giornale a proposito della facciata di una chiesa di campagna cui era stata affissa l'insegna luminosa di una marca di birra. L'edificio era stato venduto ed era stato trasformato in un bar. Qualcuno si era lamentato con le autorità ecclesiastiche, e il prete incaricato di rispondere alle critiche si era mostrato piuttosto irritato. Ai suoi occhi, l'episodio rivelava quanto fosse grande l'ignoranza a proposito di cosa fosse veramente una chiesa. S'immaginavano forse i fedeli che una chiesa consistesse in assi, mattoni e vetrate? Sotto le spoglie della devozione si celava qui un esempio di quel materialismo che la Chiesa combatte tanto. L'edificio era stato sconsacrato e quindi il problema non sussisteva.
Fedro disse che la stessa confusione esisteva a proposito dell' Università. L'Università vera non è un oggetto materiale. Non è un insieme di edifici che può essere difeso dalla polizia. Fedro spiegò che quando un College perde il riconoscimento accademico nessuno viene a chiudere la scuola, non ci sono sanzioni legali ne' multe, ne' condanne. Le lezioni non s'interrompono. Tutto continua esattamente come prima. La vera Università si limiterebbe a dichiarare che questo posto non è più "consacrato". La vera Università svanirebbe da quel luogo, lasciandosi dietro soltanto libri e mattoni: la sua mera manifestazione materiale.
Questi concetti dovettero risultare piuttosto strani agli studenti, e immagino che Fedro abbia dovuto aspettare a lungo che le sue idee facessero presa, per poi dover aspettare ancora prima che gli chiedessero: "Cosa pensa che sia la vera Università?".
I suoi appunti rispondono alla domanda così:

La vera Università non ha un'ubicazione specifica. Non ha possedimenti, non paga stipendi e non riceve contributi materiali. La vera Università è una condizione mentale. E' quella grande eredità del pensiero razionale che ci è stata tramandata attraverso i secoli e che non esiste in alcun luogo specifico; viene rinnovata attraverso i secoli da un corpo di adepti tradizionalmente insigniti del titolo di professori, ma nemmeno questo titolo di fa parte della vera Università. Essa è il corpo della ragione stessa che si perpetua.
Oltre a questa condizine mentale, la "ragione", c'è un'entità legale che disgraziatamente porta lo stesso nome ma è tutt'altra cosa. Si tratta di una società che non ha scopi di lucro, di un ente statale con un indirizzo specifico che ha dei possedimenti, paga stipendi, riceve contributi materiali e di conseguenza può subire pressioni dall'esterno.
(...)
La gente che non riesce a vedere questa differenza, disse Fedro, e crede che il controllo degli edifici della Chiesa implichi il controllo della Chiesa stessa, considera i professori semplici impiegati della seconda Università, che dovrebbero rinunciare alla ragione a comando e ricevere ordini senza discuterli, come fanno gli impiegati delle altre aziende.
(...)
Il fine ultimo della Chiesa della Ragione, disse Fedro, è rimasto quello socratico della verità nelle sue forme eternamente mutevoli, una verità che ci viene rivelata dai processi razionali. Tutto il resto è subordinato a questa ricerca. Normalmente questo fine non è in conflitto con quello che si propone la sede legale dell'Università, e cioè di migliorare lo spirito civico, ma talvolta sorgono dei conflitti (...)
E il conflitto sorge quando amministratori e legislatori che hanno dedicato tempo e denaro alla sede dell' Università maturano convizioni opposte a quelle espresse dai professori. Allora possono far pressione sull'amministrazione, e minacciare il taglio dei fondi.

IL FINE ULTIMO DEI PROFESSORI, PERO', NON E' MAI QUELLO DI SERVIRE PRIORITARIAMENTE LA COMUNITA', MA DI METTERE LA RAGIONE AL SERVIZIO DELLA VERITA'.

Robert M. Pirsig: Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta, pagg 149 151, Adelphi 2009


domenica 1 novembre 2009

Il rosso il nero e il marrone

- Chi siete voi, conte. Non è questo il pensiero, e, meglio, il pensiero che cospira?

- Sono qui per il mio nome. Ma nelle vostre sale il pensiero è odiato. Bisogna ch'esso non si levi più su del ritornello d'una strofa d'operetta: allora lo si ricompensa. Ma l'uomo che pensa, se ha dell'energia e delle novità nelle sue trovate, lo chiamate cinico. Non è l'epiteto che uno dei vostri giudici ha dato a Courier? L'avete messo in prigione, come come Béranger. Tutto ciò ha qualche valore spirituale, in *****a la congregazione lo getta alla polizia correzionale, e la buona società batte le mani. Perchè la vostra società invecchiata pregia soprattutto le convenienze...Voi non v'innalzerete mai più su del coraggio militare: avrete dei Murat, mai dei Washington. Non vedo in *****a altro che vanità. Uno che abbia un po' d'inventiva discorrendo, esce facilmente in qualche cosa di audace, e il padrone di casa si sente disonorato.




Stendhal, Il rosso e il nero, cap. Il ballo